lista dei contatti=mercato del bestiame. E se le vacche si facessero pagare?

Ieri stavo creando una cartella sul mio account Dropbox, per condividere con un amico, assieme alla comune passione per il jazz, del materiale musicale.

Per permettergli l’accesso devo inserire la sua e-mail in un invito. Non me la ricordo; se però, per pigrizia, non avessi voglia di andarmela a cercare, mi viene in soccorso un’opzione facile-facile: cliccare su “importa dai contatti”. Siccome, oltre che amici trentennali, lo siamo anche su fb, il passaggio sarebbe veloce. Ma ATTENZIONE! I signori, per un indirizzo solo, mi chiedono candidamente di accedere A TUTTA LA LISTA DEI MIEI AMICI FACEBOOK! E di gestirla pure !!! Chiaramente vinco la pigrizia e vado a cercarmi su outlook l’email del mio amico. Ma se fossi stato un po’ distratto avrei chiaramente acconsentito (come ahimè deve essermi successo più di una volta).

Ora, qualche giorno fa ad un seminario ho appreso che ogni follower (amico, affiliato, quel che volete) di un brand, spende mediamente per quel brand 170$/anno in più degli altri Clienti (e per la moda 250$). Da cui, sia pure che una parte di quel valore l’azienda depositaria del brand lo deve mollare all’agenzia che gli ha fatto la campagna; sia pure che un’altra cospicua fetta la deve versare alla piattaforma che gli ha reso disponibile il suo database (facebook o chi altro); sia pure che non è detto che tutti i contatti esaminati diventino follower di un brand (ce lo vedete un rompiballe coriaceo come me chiedere l’amicizia ad un brand di ammorbidente per bucato?); però dico: perché in queste transumanze informatico-commerciali di bestiame non versate qualche spicciolo anche a me? In tal caso i dati del mio account li metto a disposizione volentieri.

Già che mi sono dato la stura, ne conto un’altra: al telefono di casa imperversano piazzisti di energia, gas, telefono e quant’altro (anche lì qualcuno gli ha dato il contatto, presumo). La mia risposta tipica era, di base: “va bene, mandatemi una bozza per email che la esamino: se è conveniente, lieto di passare con voi….”.

Troppo facile, loro non hanno questo mandato (!!!): il business model di questi faccendieri è di inviarti il contratto, su cui tu hai il diritto di recesso entro 10 giorni. Come ben sappiamo, uno dei grossi stratagemmi per ottenere vendite fisse è quello del tacito rinnovo, del quale il recesso su richiesta non è che un caso particolare. Le mie rimostranze con questi signori sono diventate orami abbastanza risentite e accusatorie. Nulla di personale, ma:

1) chiedo chi gli ha dato il mio numero (e ovviamente non ottengo soddisfazione)

2)faccio notare che:

– da che mondo è mondo, quando due parti fanno business, il proponente manda una bozza d’accordo su cui il “prospect” (io) medita e decide

– queste sono metodiche fortemente scorrette, con cui probabilmente ogni giorno fregano un po’ di sciure marie e capi di bestiame vari : ma verrà un redde rationem, gli auguro…

disclaimer: sotto può darsi troviate della pubblicità, a mia insaputa. L’ho fatto notare a wordpress e mi hanno risposto di non fare troppo il difficile: siccome mi danno un blog in cui mi esprimo gratis, se mi va bene è così. Perlomeno hanno rinunciato a infarcire i miei post (sì, proprio sulle mie frasi) di link multimediali a giochi on line più o meno d’azzardo, smartofoni a sorteggio, investimenti mirabolanti, incontri con signorine avvenenti e chi più ne avanza più ne metta.

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Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente

Non è che sto imparando a fare titoli esca dalle sane regole del giornalismo, no, è solo il titolo tal quale del nuovo romanzo di Mohsin Hamid (mi ci ero già imbattuto ne “il fondamentalista riluttante”). In gamba il tipo, è uno che sa di cosa parla: da Lahore, Pakistan, dove è nato, a 3 anni è venuto negli States, poi ha seguito di nuovo i suoi in Pakistan, lì frequentando scuole americane, dopodiché è tornato negli States a spararsi brillantemente Princeton, Harvard e poi è finito nientemeno che in McKinsey. E oggi vive di nuovo in Pakistan.
Non l’ho ancora letto, ma l’ho subito messo in coda, (anche facendogli saltare qualche posto). Infatti i titoli dei capitoli sono un programma:

uno. trasferisciti in città
due. fatti una cultura
tre. non innamorarti
quattro. evita gli idealisti
cinque. impara da un maestro
sei. mettiti in proprio
sette. tieniti pronto a ricorrere alla violenza
otto. fatti amico un burocrate
nove. associati agli artisti della guerra
dieci. balla col debito
undici. concentrati sui fondamentali
dodici. preparati una via d’uscita.

disclaimer (che d’ora in poi metterò sempre): la pubblicità che potreste leggere sotto non l’ho voluta io né ci guadagno nulla: a mia richiesta di chiarimenti mi è stato risposto che, siccome mi danno opportunità di scrivere gratis, se mi va bene è così.

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La non competitività globale dell’Italia

Il Global Competitiveness Index, calcolato sulla base di 12 pilastri fondamentali, ciascuno dei quali a sua volta composto di diversi fattori, vede l’Italia al 49esimo posto nel report 2013-14, 7 posti persi rispetto al precedente GCI 2012-13, su 144 Paesi. I posti in classifica per ciascuno dei 12 “pillars” sono i seguenti (tra parentesi il precedente posizionamento):
1- Institutions 102 (97)
2- Infrastructure 25 (28)
3- Macroeconomic environment 101 (102)
4- Health & primary education: 26 (25)
5- Higher education and training 42 (45)
6- Goods market efficiency 87 (65)
7- Labor market efficiency 137 (127)
8- Financial market development 124 (111)
9- Technological readiness 37 (40)
10- Market size 10 (10)
11- Business sophistication 27 (28)
12- Innovation 38 (36)
Io credo che probabilmente il mondo sia davanti all’inesorabile messa in discussione di un modello con il fiato corto, per cui più che a una ripresa, io penserei che piuttosto la maggior parte dei Paesi stia tentando di prepararsi ad un profondo sovvertimento. L’Italia no, spicca per la sua perdita di quota anche nel ranking relativo, e soprattutto per il suo precipitare proprio in quei fattori che già la vedevano in posizione drammatica, maggiori responsabili della nostra scarsa competitività: l’efficienza del mercato del lavoro, che già ci vedeva nelle peggiori posizioni (127), ormai si avvicina alle ultime posizioni, grazie a valutazioni sopra la posizione 110 in 6 degli otto fattori di valutazione (insomma, non va bene proprio niente). Drastico peggioramento nel mercato finanziario, posto da 111 a 124 in un anno (difficile accesso ai crediti, servizi finanziari costosi e poca disponibilità dei venture capitals, diritti legali i principali imputati); e l’efficienza dei mercati dei beni, già in una poco onorevole posizione 65, precipita a 87, con peso determinante degli effetti fiscali, tra i peggiori al mondo. Peggiora il già messo male ranking delle istituzioni, grazie a disastrose valutazioni in “burden of government regulation” (142 terz’ultima mondiale!), “efficiency of legal framework in setting disputies” (139), stessa posizione di “transparency of government policymaking”; la casta sta anche in “efficacy of corporate boards”(134); e tutte con pari classifica si danno la mano “public trust in politicians”, “organised crime”, “efficiency of legal framework in challenging regs”, al posto 131: 7 dei 22 fattori su cui si valuta il nostro sistema istituzionale sono insomma oltre il posto 130 su 144. E un bell’ottavo fattore è “wastefulness of government spending”, anche lui ad un bel 126esimo posto. Nessuno, ma proprio nessuno degli altri fattori riesce a meritarsi posti sotto il 52esimo.
Un pilastro che resta lì dov’è (101esimo contro 102 dell’anno precedente) è il contesto macroeconomico, di certo non una posizione da leccarsi i baffi.
A questi segni di un Paese che precipita unisco alcune considerazioni da “ricchezza e disuguaglianza in Italia”, paper reperibile sul sito di Banca d’Italia: fatti 100 gli indici del 1965, la ricchezza netta pro capite al netto del debito pubblico sta oltre 600; potrebbe essere un buon risultato, se non fosse che il 10% della popolazione ne detiene quasi il 50%, con distribuzione sempre più diseguale. Inoltre il PIL è cresciuto metà della ricchezza, ad indicare la crescente rilevanza delle condizioni patrimoniali su quelle reddituali, insomma di quanto risalente al passato rispetto a quanto possibile procurarsi giorno per giorno. E difatti, quasi a coronamento di un sillogismo, il patrimonio è distribuito molto meno uniformemente dei redditi (indice di Gini del primo 0.69; 0.27 per i redditi; una distribuzione uniforme ha Gini=0). Come dire che non siamo in una condizione in cui la voglia di lavorare può saltarci addosso e, se proprio dovesse, è probabile sia meglio andarla a sfogare in un altro paese.

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Dello scrivere e altre forme

Chi ha avuto l’occasione di confrontare l’immagine reale di uno scrittore con quella che si può desumere dai suoi scritti, sa quanto sia frequente il caso che esse non coincidano. Il delicato indagatore di stati d’animo, vibratile come un circuito oscillante, si rivela un tanghero borioso, morbosamente pieno di sé, avido di denaro e di adulazioni, cieco alle sofferenze del prossimo; il poeta orgiastico e sontuoso, in comunione panica con l’universo, è un omino astinente e astemio, non per scelta ascetica ma per prescrizione medica. Ma quanto è gradevole, invece, pacificante , rasserenante, il caso inverso, dell’uomo che si conserva uguale a sé stesso attraverso quello che scrive!” (Primo Levi, I Racconti, incipit di “stanco di finzioni”) Forse non c’entra niente con quello che scrivo (o che scrivevo) su questo blog. La copio tal quale forse perchè non da un po’ non ho voglia di scrivere. E nemmeno di ascoltare e leggere radio e telegiornali e giornali per stare al passo con quel che succede (continuo a farlo, ma sempre più chiedendomi a cosa serve: questi andrebbero cacciati via a legnate, della mia semplice disapprovazione se ne fottono). O forse l’ho ricopiata solo perchè mi è piaciuta. Tant’è.

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Esperto in Gestione Energetica? Un fiorino!

La norma UNI CEI 11339:2009 è, ad oggi, il riferimento più recente per la definizione di EGE, cioè di Esperto nella Gestione dell’Energia.  Il suo nocciolo sta in:

  • 4.compiti;
  • 5.competenze;
  • 6.modalità di valutazione

dell’EGE, due pagine e mezzo in tutto.

Quanto segue è abbastanza immodesto, ma sopportatemi:

leggo la norma valutando criticamente se stia parlando di me (lo facciamo anche coi personaggi dei romanzi, figuriamoci qui). E i compiti dell’EGE sono una delle cose di cui mi curo di verificare l’esistenza parlando col personale dei siti in cui vado a fare degli audit. In Italia come in Kazakhstan, Ucraina, Russia, Serbia e tanti altri Paesi. In stabilimenti di polipropilene, come in centrali termoelettriche, impianti di pompaggio acqua mare, fabbriche di cuscinetti a sfere per treni, pasta alimentare, detersivi, acciaio, impianti di trattamento acqua di falda. Da ben prima che si parlasse di audit, fino a tutt’oggi, quando ormai mi repelle chiamare audit quel che faccio, visto che ormai è diventato un termine inflazionato: io oggi non propongo audit ma caratterizzazioni energetiche, e non è snobismo.

Se voglio trovarmi una non conformità: beh, non sono mai stato in uno sito in modo continuativo. Suggerisco al personale le cose che dovrebbe fare, mettendogliele in ordine di priorità e valutandone, magari con accuratezza budgetaria ma sempre quantificante, costi e benefici economici. Poi, dopo qualche mese, via verso una nuova avventura, anche se spesso mi richiamano per progettare o assisterli sulla realizzazione di qualche intervento suggerito. O per replicare l’esperienza su un altro sito. Nel 2012 un soggetto decisamente grosso mi ha fatto fare 5 suoi impianti: il personale di impianto ogni volta l’ho conosciuto pochi giorni, ma con lo staff della corporate che si è diviso per seguirmi sette mesi ormai siamo amici, dato che abbiamo presentato assieme due articoli eche mi hanno voluto tra i piedi anche quest’anno per altri impianti (Oltre che progettare alcuni interventi suggeriti nel 2012).

Allora andiamo al 5, competenze dell’EGE:  direi che gli ultimi 5-6 anni del mio CV più o meno ne rappresentano la messa in pratica.  E negli anni prima mi sono occupato di cogenerazione, teleriscaldamento, generazione distribuita, sia come progetti di ricerca che come valutazioni di potenziali di paesi o regioni per governi e ministeri e, per non farmi mancare nulla, progetti e studi di fattibilità di singoli impianti per terzi. E prima ancora? Ebbè stavo a sviluppare ed utilizzare i simulatori delle centrali termoelettriche, nei centri di ricerca di quella che allora era “L’Azienda” elettrica italiana. E prima ancora arriviamo al Poli, e al dipartimento di energetica che mi ha tenuto a balia per la tesi.

Sono abbastanza EGE? Immodestamente penso di sì.

E allora andiamo avanti e arriviamo a 6-autovalutazione.

La prima cosa chiara è che io posso autovalutarmi. Al limite devo andare a trovare i miei vecchi datori di lavoro, che tra l’altro vado sempre volentieri a salutare, e farmi rilasciare referenza scritta di quel che ho combinato con loro.   

Bene. Ma un’associazione, a connotazione fortemente lobbistica, si è già portata avanti a proporre suoi corsi, suoi esami, suo registro, sue quote di iscrizione e sue quote di mantenimento al registro.  Ammesso che tu vada a fare direttamente l’esame senza corso, sono 850 euri complessivi, più altri 300 all’anno per restare nel loro registro. Perché non possono chiamarlo albo, non ha alcun valore legale.

Telefono a dei loro concorrenti. Mi risponde la dott.ssa Taldeitali, devo dire molto gentile, educata,  preparata (“polite”, in un termine che in italiano non trovo).

Anche loro fanno un loro un loro “registro”, che (essendo meno “sexy”, o titolati, o famosi) offrono con 100 euro in meno. Le faccio una domanda precisa: “Ma io posso autovalutarmi, giusto? Siamo d’accordo che un privato per assegnare incarico fa quel che vuole, ma  nessun bando pubblico potrà mai dire che vogliono un EGE iscritto al registro tal dei tali mentre un EGE che si autovaluta secondo norma 11339 non gli va bene, giusto?” Mi risponde che è così, pur cercando di segnalarmi i vantaggi del poter vantare un timbro rinomato tout court.

La ringrazio perché mi ha aiutato a far chiarezza. Perché, sia chiaro, la funzione importante di formare nuovi EGE a qualcuno che le competenze e l’organizzazione ce le ha, la riconosco. Ma che cerchino con l’ambiguità di far credere che tu debba passare dal loro registro (e dalle loro quote) per essere EGE non l’accetto. Siamo alle solite italiche.

Avevo inserito due anni fa nel mio CV di essere un EGE; ma poi l’avevo tolto convinto di aver fatto (in buona fede) una dichiarazione mendace. Oggi so che ero stato spaventato da ambiguità non troppo involontarie. Quindi:

  • appena finito di scrivere questo articolo vado a ridichiararmi EGE a norma UNI CEI 11339 sul CV;
  • non mi iscriverò ad alcun registro, mi costasse ben più di 800 euro in scocciature per mostrami autovalutato.
  • Il primo bando pubblico di gara cui voglio partecipare, che esigerà un EGE iscritto al registro tal dei tali, lo faccio saltare o lo trascino davanti al TAR.

Non ci si può sempre limitare a mugugnare.

 

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a tutto c’è un limite

Eh no cazzo, adesso è proprio troppo: 5minuti fa passo dall’ultimo miglio e, posando l’occhio sui miei ultimi due post, mi accorgo che sono stati inseriti dei link multimediali a riquadri pubblicitari che fanno promo alle classiche merci da internet per allocchi: lotterie, smartofoni e via dicendo. Già non sono proprio uno scrittore assiduo, ma questa cosa me ne fa proprio passar la voglia, la tentazione di piallare tutto il mio postato di wordpress è molto forte.

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I mondi paralleli e l’abuso di caffè

Poco fa leggevo un post sulla penuria di caffè nel 2080 (???).  Dovessi esserci ancora (chissamai, son di fibra forte…) forse avrei finalmente la motivazione per vincere l’abuso che ne faccio da sempre (lo ribattevo con tono altrettanto ironico di quello del post). Però nel frattempo ho focalizzato la storiella che mi è capitata ieri, e che scrivo di seguito:

Mattino, circa 9.30, un industrioso paesotto varesotto. Come al solito, dato che sono in scooter,  arrivo in anticipo rispetto ad un mio collega che invece è rimasto imbottigliato nel traffico. Dopo dovremmo andare, appunto, ad industriarci lì vicino. Lo aspetto nel primo bar, come gli dico via sms. Entro. Ordino un caffè prima di guardar bene il posto: errore. Una donna semiumana sui 35-40 sta preparando a pennarello qualche mirabolante advertising (sembra una bambina delle elementari che fa i compiti). Nell’aria le onde sonore altissime di una TV da 36″, che campeggia in mezzo alla parete principale, trasmettendo un dietologo che reclama l’importanza della verdura e dell’acqua.  Per me, fin da bambino, una TV accesa al mattino è una nota stonata, un gesso che scricchiola, un pugno in un occhio, il sale nel caffè, insomma una cosa che non ci sta.  Anche la semiumana ad un certo punto si stanca e cambia canale, per trovare un altro programma da non guardare: meglio non guardare un ER medici in prima linea di 25 anni fa, dove continuano ad urlare come matti, in mezzo ad urgenze contemporanee.

Ma torniamo al mondo verissimo, il bar: nella parte contrapposta al TV ci sono 3-4 mangiasoldi. Ovunque filoni di biglietti della lotteria appesi dappertutto.  Non c’è nessuno oltre a me e alla semiumana, ma mi attanaglia una morsa di depressione.

Così bevo il caffè e vado ad ordinarne un altro 100 m più avanti, al più urbano “caffè del corso”. Con i due già presi a casa, sono le 9.30 ed è il quarto. Come farò nel 2080?

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antipolitica? E quale sarebbe?

Kiev, 2007, un venerdì mattina. Sono nella breakfast room del mio albergo, di solito abbastanza tranquilla. Stamattina no. Tavoli pieni, fila ai buffet e un insieme che sa di becero. Quasi come le pullmanate di turisti ma non proprio (ad esempio hanno un 10-15 anni meno e pretendono vestirsi con improbabile semi-formalità). Torno al mio posto con la marmellata, dove una brutta signora (in tutti i sensi) mi sta portando via la sedia: cristo, hai visto benissimo che era occupato, ci avevo già messo il cappuccino e qualcos’altro. Mi limito a fermare la sedia e a fulminarla. Realizzo cosa succede: il week end è di comizio elettorale e i politici hanno riempito gli alberghi con le loro clacques, morti di fame reclutati dalle campagne in cambio di qualche pasto a Kiev nel week end (in Ucraina la campagna non è come la nostra: lì le città sono città, fuori è desolazione). Vabbè, ma l’Ucraina è un Paese dove metti ancora in galera gli avversari politici con un pretesto (non che la bellissima Yulia sia un’educanda, sia chiaro, appartiene ad una delle famiglie più prepotenti del Paese); ed è un Paese di raccomandati, immanicati, che in fondo accettano un complesso d’inferiorità nei confronti dei russi, che li trattano con molto paternalismo, un po’ come dei fratellini rimasti piccoli. Faccio queste osservazioni dure nonostante sia rimasto davvero affezionato a Kiev, dove nel 2007 ho passato 1-2 settimane al mese tutto l’anno, a volte week end inclusi.

Monza, maggio 2012, il venerdì sera prima delle amministrative, in una pizzeria (la mia solita), con gli amici. Tempi duri, il Mario di venerdì sera ha sempre fatto 300 coperti, stasera invece ci saranno 4-5 tavoli occupati. Però vedo che metà sala è separata: di là è pronto un lungo ferro di cavallo. Ad un certo punto della serata c’è un po’ di movimento, tre tipi in completo percorrono il locale in lungo e in largo. I vestiti mi sembrano di buona fattura, ma l’insieme è inevitabilmente rozzo, aplomb decisi quanto ottusi. Niente a che vedere con le aitanti bodyguard del nano di cui ormai nei tg si riconoscono le facce: in comune, uno ha solo il ricciolino dell’auricolare. Poco dopo arriva un personaggio decisamente noto (anche senza la laurea albanese al figlio zuccone). Dire che è claudicante è poco, è molto più conciato di quanto sembra in TV. Lo aiutano a prendere posto. Inizia a mangiare anche se non è ancora arrivato nessuno, un’assistente gli taglia la bistecca: tristissimo. Poi arrivano pian piano, in tanti.  Gente brutta, maleducata, anche se non sono rumorosi: un po’ sembrano depressi, un po’ sembra siano lì pensando ad altro. Ultimo arriva il sindaco uscente. Non posso evitare il parallelo con Kiev: una banda di morti di fame che si fanno reclutare a far numero per una bistecca scroccata.

E penso ai miei coetanei che si sono dati alla politica locale: erano tutti decisamente più somari di me, senza eccezioni. Vuoi perchè preferissero le chiacchiere, vuoi per testa di legno, vuoi entrambe le cose. Churchill diceva che la democrazia è il peggior modello esistente, eccettuati gli altri.  Io ho sempre cercato di convincere chiunque che non votare è darsi la zappa sui piedi: se sono cialtroni con il tuo sguardo addosso, come sarebbero senza neanche quello? E lamentarsi di “tutti i politici” è troppo facile: vuol dire giustificarli a darti quel che ti aspetti, oltre che a giustificare te stesso di essere un po’ cialtrone e ladro nel tuo piccolo.

E continuo ad immaginare che a decidere per me dovrebbero esserci dei capitani che affondano con la nave, non degli Schettino, anche se i conti non mi tornano.  Non credere all’antipolitica? Faccio sempre più fatica ad essere convincente anche con me stesso. Sarebbe politica quella cui assistiamo?

Un anno e mezzo fa, il mio blog era partito parlando molto più di un modello personale. Ho raccolto e raccolgo esperienze preziose. Ma a volte sembra di ostinarsi nella messa a fuoco di cose che non possono mettersi in scena, su uno sfondo come il tessuto in cui vivo.

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Conferme e sorprese di tutti i giorni (in due atti)

Sì, perché uno magari ha ancora in fondo all’anima un barlume di convinzione che le cose assurde succedano sui giornali, o perlomeno solo agli altri.

Vorrei farei un’assicurazione professionale. Sì perché insomma, anche se metà del mio tempo lo spendo per il Gruppetto, che si prende le responsabilità di quel che faccio (speriamo),  per la metà restante, che ancora sono lontano da riempire, non si sa mai, qualche contestazione sul mio operato ci potrebbe pur stare.

Premetto anche che, in virtù del fatto che faccio il consulente energetico, non supervisione di cantieri, né firmo progetti esecutivi, non mi sono iscritto all’albo. Potrei farlo al volo, l’esame di stato lo feci appena laureato, ma perché dovrei? Passi la tassa annuale, ma perché  dare un contributo previdenziale non meno di X (ben più pesante della tassa annuale) anche se non fatturassi niente? Perché l’Ordine pretende questa rendita sottoforma di franchigia alle mie spalle?

Bene. Allora telefono ad un po’ di broker assicurativi. Dopo 3 o 4 è ben chiaro che questi, forti dell’ assicurazione obbligatoria appena incassata per decreto cui da quest’anno sono tenuti gli iscritti agli albi, per una posizione come la mia non hanno proprio la proposta, né se ne curano.

Gli dico che l’ultimo incarico appena ricevuto è stato in base al mio CV, lungo come il filo di Arianna e sudato in tutto il mondo, quello sì che attesta esperienza:  perché non mi dovrebbero assicurare?

Mastico amaro, ho capito che dovrò spendere qualche migliaio di euro a ufo: iscrizione albo, franchigia previdenziale, e poi assicurazione (ovviamente rincarata da quando obbligatoria)

E tocco con mano un paese finito, dove per far qualcosa basandoti sulla tua competitività hai barriere di ingresso dappertutto, messe per ingrassare squadre di scrocconi che si sono corporati e si acciambellano sulla tua schiena mentre tu tiri per la salita, a garantire il loro diritto di posizione. Capito perché in Italia a far business non ci viene proprio più nessuno? E anche tanti italiani se ne vanno fuori? Porcaputtana.

Farsi mungere o ribellarsi? Mah, magari con un po’ di unione tra gente consapevole… già, ecco un esempio di spirito di unione, misto ad educazione ineccepibile e interesse “fisiologico” per il prossimo. Anche questo vissuto in diretta, purtroppo:

8-9 giorni fa, domenica; torno a casa sulla mia bici da corsa e, a 1km da casa, c’è un Auchan aperto (ormai sono aperti tutte le domeniche):  penso che potrei prendere il pane e scendo per il silos parcheggio, fino all’entrata seminterrata del centro commerciale. Scendo dalla bici ma, vuoi le tacchette da ciclista, vuoi che peso tutto sulla gamba buona (dall’altra ho una caviglia ancora gonfissima per un decollo in parapendio decisamente non ortodosso, 15 giorni prima) e lo scivoloso pavimento del parcheggio sotterraneo non mi tiene: mi stampo per terra di schiena come un salame. Non mi sono fatto niente, andando giù mi sono tenuto aggrappato a manubrio e telaio con le mani, ma è pur sempre una schienata, vistosa e plateale.

Bene, a non più di tre metri da me un bellimbusto sui 30-35 sta telefonando e cosa fa? Terribile,  continua a telefonare come non ci fossi nemmeno; come davanti a lui una persona non fosse finita sdraiata per terra. Che brutta cosa. Molto meglio si fosse messo a ridere. O a scuotere la testa. No, nemmeno, l’indifferenza più completa. 5 secondi dopo, mentre mi sto rialzando, ho un minimo di ritorno di fiducia nell’impasto sociale in cui siamo finiti, quando da un auto si apre il finestrino: “tutto a posto?” “ Sì grazie”. Nel mentre il bellimbusto continua la sua telefonata. Entro dalla porta a vetri del centro commerciale, ma ci sono restato malissimo: “che gente c’è in giro?”, mi chiedo tra me e me per un minuto buono.

E torno al primo atto: farsi mungere o unirsi per ribellarsi? Non so ma, nel caso, di unirsi è meglio dimenticarlo.

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downshifting = calare il tenore di vita ; risparmio= efficienza ; sarà vero?

Sto facendo un po’ di confusione. Sì, perché, oltre a qualche post sull’ultimo miglio, scrivo di efficienza energetica su  http://www.b2corporate.com, canale energy (lì mi firmo estor…); e poi, mi piace commentare i post altrui, tra cui uno che parla di energia (http://oronero.wordpress.com/) di Anna, ingegnere italo-svedese-cosmopolita. Lì mi dò un taglio più tecnico, ma in entrambi resto spesso sul sistematico. Così poco fa su oronero ho commentato questo bel filmato, che Anna proponeva, sulla limitatezza delle risorse energetiche (there’s no tomorrow, di Incubate Pictures; è divulgativo ma rigoroso, lo consiglio a tutti):

http://www.youtube.com/watch?v=VOMWzjrRiBg&context=C3aa4633ADOEgsToPDskIY1TtAMY8BT2DVc7RS9QCE.

Approvando il film, prendevo l’occasione per dire come nessuno affronti mai quello che secondo me è IL PUNTO: l’uomo dovrebbe collegare meno la percezione del proprio tenore di vita alla componente materiale dello stesso (almeno chi materialmente ha già abbastanza). Si tratta di una rivoluzione psicologica più drammatica di quella copernicana, senza la quale, limitando i consumi tramite i comportamenti, anche volontariamente, percepiremo sempre la cosa come una rinuncia, cioè una sconfitta: così è fatto l’uomo.

E citavo il paradosso di Stanley Jevons che, nell’XIX secolo,  notò che il processo di produzione dell’acciaio in 30 anni aveva ridotto ad un terzo il fabbisogno di carbone per unità di prodotto: eppure il consumo complessivo di carbone era centuplicato: 1) produrre l’acciaio era diventato così economico da sfondare il mercato dei materiali da costruzione; 2) Le stessa domanda di costruzioni (case, navi, tutto quanto, a loro volta motivi di consumo di carbone) aumentò a dismisura, data la loro nuova economicità/realizzabilità.
 
Bene, Jevons non visse duecento anni, altrimenti avrebbe trovato una conferma alla sua ipotesi osservando che 40 anni di progressi nell’efficienza dei motori, nell’aerodinamica e nella leggerezza dei materiali sono serviti a mandare in giro la gente con dei SUV da 3km/litro!
 
Poi tornavo allo psico-sociale, che decisamente è più attinente con i discorsi dell’ultimo miglio: se rinunci al SUV perchè ti sei convinto che è una cosa stupida; se in casa capisci che con due maglioni si sta altrettanto bene che con 3°C in più, sei sulla buona strada; se invece queste due cose le fai ma le senti come una rinuncia che ti fa sentire sminuito …beh stai ripiegando: alla prima occasione lotterai con altri per poter prendere una parte dei “loro” consumi: così è l’uomo, finché non farà rivoluzione dentro sè stesso!

Fine commento. Ma a questo punto aggiungo un’altra faccenda che riguarda sia l’efficienza energetica che i comportamenti psico-sociali: la nota 2 a piè di pagina 1 della COM(2011)109, comunicazione EU in cui si nota che non siamo sulla strada buona per centrare gli obiettivi di efficienza energetica al 2020), recita:

Tecnicamente per “efficienza energetica” si intende l’utilizzo di meno energia mantenendo un livello equivalente di attività o servizio economici; “risparmio energetico” è un concetto più ampio che comprende anche la riduzione del consumo mediante cambiamenti di comportamento o una diminuzione dell’attività economica. In pratica i due concetti sono difficili da distinguere e, come nella presente Comunicazione, i termini sono spesso usati in modo intercambiabile

Insomma la stessa EU rinuncia a chiarire il pasticcio, rendendosi conto che non è così facile risolvere l’ambiguità; è un atteggiamento abbastanza onesto (all’europea, diciamo, me ne sbatto ma ti ho detto perché);

Io posso solo metter giù quella che è la mia sensazione di sempre da addetto ai lavori: nessun politico parla volentieri di risparmio energetico ottenuto tramite riduzione delle pretese materiali, anche nel consumo.  Si può sprecare con grande efficienza (tenere la casa a 26°C con apparecchiature efficienti; o girare col SUV: per il cassone che è, è efficientissimo). Chiedere all’elettorato di non inseguire il tenore di vita materiale, specie se impigrito e sempre più povero di altri spunti, è pericolosissimo: rinuncerebbe solo a malincuore a materialità che considera unici prolungamenti della propria potenza, non avendone altri. Per essere proprio chiaro: è sacrosanto per chiunque l’aspirazione a sentirsi potenti, riusciti, sicuri di sé. Se però è faticoso, difficile, incerto, rifugiarsi in quelli che culturalmente sono percepiti all’esterno come segnali può sembrare una scorciatoia che salva la faccia. Finché non si butta giù questo equivoco non se ne esce.

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